Fratture da stress: ragionamento tensegrile

Pubblichiamo un articolo di carattere scientifico sulle fratture da stress realizzato in ambito accademico da Emiliano Brannetti, osteopata che da anni collabora con la Fidal e con il quale abbiamo più volte chiacchierato di infortuni che riguardano gli atleti.

Gli infortuni da stress, che spesso ci troviamo ad affrontare, richiedono un ragionamento molto profondo e a volte complicato. Quando un atleta arriva in studio con gli esiti di fratture da stress o, peggio ancora, in prima diagnosi con un dolore che lascia la porta aperta al dubbio che sotto quel sintomo si possa nascondere una frattura da stress, il ragionamento, che prima di tutto prevede tutto l’iter di indagine e cura della frattura qualora ci sia, deve essere approfondito e scrupoloso.

Una visione a tutto tondo della persona è l’unica strada da percorrere affinché il problema non si riproponga; capire i piani d’allenamento, le abitudini della persona, il sistema posturale che lo caratterizza e la cronologia degli eventi traumatici intercorsi fisici ed emotivi rimane alla base di un’attenta indagine meccanico-posturale e, perché no, clinica a tutti gli effetti.

Quando si può parlare di infortuni da stress

Un infortunio da stress viene definito tale quando una forza meccanica ripetuta nel tempo, indipendentemente dall’intensità, stimola una struttura sempre nello stesso punto fino a quando la stessa non cede nelle sue componenti costitutive generando una lesione più o meno grave con relativo dolore, infiammazione e impotenza funzionale; immaginiamo, per esempio, le fratture da stress del metatarso.

Piccolo passo indietro: i tessuti, dalla superficiale pelle all’osso profondo passando attraverso tendini, muscoli, legamenti, cartilagini e fasce hanno conformazioni differenti in termini sia di composti minerali che cellulari e, in base a come essi sono costruiti, rispondono e si adattano più o meno peggio a forze meccaniche di trazione e compressione che, durante uno sforzo fisico, tendono a modificarne la forma in modo da ammortizzare gli urti e restituire la stesse forze in modo che queste si trasformino in movimento raffinato e sicuro.


La capacità di adattamento descritta viene definita plasticità e ogni tessuto ha la sua. Generalmente l’osso, per definizione il tessuto più rigido, è quello che va più spesso incontro a fratture da stress se stimolato oltre la sua peculiare capacità di adattamento.

Quando si rompe un osso da stress è un evento drammatico. Prima di tutto perché avviene in maniera piuttosto subdola e spesso ci si accorge del problema solo quando non si può più fare nulla se non riparare, e poi perché i tempi di recupero, nonostante le moderne tecniche di terapia fisica, possono raggiungere anche diversi mesi con compromissione della stagione agonistica.

Il concetto di rottura di una singola struttura va inserito, però, in un concetto molto più ampio di un lavoro che tutti i tessuti, con tutte le loro cellule, effettuano all’unisono nel momento in cui arriva una forza di compressione o di trazione.

Prendiamo d’esempio il piede di un centometrista che al momento dello sparo scarica sul blocco di partenza tutta la sua potenza, pensiamo a quanto lo stesso piede venga sollecitato in termini di potenza durante la fase lanciata e a quanto in frenata alla fine della prova.

Quando tutto funziona bene nessuno si accorge di quanta potenza viene scaricata sulle cellule di tutti i tessuti di tutto il piede che in maniera differente ma tutte insieme riescono a modificare la loro forma tale che la forza venga prima ammortizzata e poi trasformata in propulsione.


Per approfondire meglio questo discorso vorrei scomodare un argomento che negli ultimi anni si sta facendo spazio e che nella sua semplicità apre nuovi orizzonti di comprensione nei confronti di questo tipo di infortunio, non tanto nel definirne il piano terapeutico ma nel prevenirlo soprattutto se determinati tipi di analisi vengono fatte precocemente nella vita di un atleta. 

Il concetto di tensegrità

Tensegrità: la strana parola con cui vengono superate le concezioni biomeccaniche classiche e si entra nel mondo del più banale qualunquismo del “tutto è collegato”! Un sistema tensegrile è un sistema formato da elementi in compressione, i puntoni, ed elementi in trazione, i tiranti, all’interno dei quali i puntoni sembrano fluttuare.

Tensegrità, appunto, è una parola che nasce dalla fusione di altre due parole: “tensione” e “integrità”. Questi sono concetti che ci vengono trasmessi dall’architettura ma che applicati al sistema biologico umano semplificano completamente l’approccio alla clinica.

Il sistema muscolo-scheletrico dell’uomo è un sistema tensegrile con muscoli, ossa e tendini; la cellula è un sistema tensegrile con la rappresentazione del suo citoscheletro; l’atomo è un sistema tensegrile con le sue microparticelle e le forze invisibili che le tengono unite.

Il concetto fondamentale delle strutture tensegrili si basa sul fatto che gli elementi costitutivi raggiungano la stabilità attraverso il modo in cui le forze di compressione e trazione sono distribuite sulla struttura, in egual maniera e in ogni direzione.

La partenza di Lisbona.


Il grande vantaggio di questo assemblamento sta nel fatto che queste costruzioni, grandi o piccole che siano, funzionano allo stesso modo: in qualsiasi posizione si trovino riescono a distribuire le forze affinché il sistema si auto mantenga. Il bello di questa visione tensegrile è che risulta essere applicabile a ogni cellula del nostro corpo: dal globulo rosso, alla cellula epatica, alle cellule delle ossa, alle cellule della pelle.

Ognuna ha le sue caratteristiche di elasticità e rigidità ma tutte possono adattarsi alle forze esterne modificando la loro forma. Un osso, che sia un femore o un metatarso, per tornare al discorso del centometrista, ha una sua caratteristica plastica che gli permette di essere elastico compatibilmente con la resistenza del materiale perché, come ovvio, quando una forza applicata supera la capacità di resistenza del materiale, il materiale si rompe. 

Proviamo ad applicare il modello tensegrile al piede del nostro centometrista. Il concetto è che tutte le cellule del piede si schiacciano e si allungano all’unisono per ogni stimolazione meccanica. Tutto il “pacchetto piede” si comprime e si decomprime al momento dell’impatto a terra. Tutte le cellule con tutti i loro annessi interni, in base al loro grado di plasticità, modificano la loro forma per sostenere il carico delle compressioni e delle trazioni che avvengono sulle loro pareti. Un meccanismo incredibilmente semplice ed estremamente efficace che permette al nostro atleta di ricavare il massimo dal sul gesto.


Nel caso delle lesioni da stress, succede che il tessuto che non riesce a sopportare le sollecitazioni meccaniche finisce per lesionarsi e, nel caso dei metatarsi, questo può avvenire sia in maniera repentina e fragorosa sia in maniera subdola e silenziosa con un dolore che nel tempo cresce sempre più e sempre sullo stesso punto ben localizzato.

Fratture da stress: parola d’ordine prevenzione

Le fratture da stress, così pensate, come detto, necessitano di un’attenta analisi che dovrebbe essere fatta anticipatamente, in via preventiva, considerando tutti gli atleti sono potenzialmente a rischio. Un lavoro di screening posturale iniziale e regolare durante l’intera stagione andrebbe fatto per evitare che accumuli muscolari d’allenamento in un anno di attività possano modificare la postura analizzata e portare un cambiamento di carico tanto da generare poi la situazione descritta.

Un atleta, si sa, per raggiungere determinati risultati investe tanto tempo e tanta fatica, fisica e mentale con coinvolgimento spesso di risorse familiari. Una frattura da stress non solo blocca l’attività ma se non se ne comprende la motivazione che ha portato a rompere proprio quell’osso e proprio in quel punto si finisce per creare una recidiva alla ripresa degli allenamenti con una grande perdita di tempo.


Se la situazione dovesse protrarsi, l’atleta, che prima di essere un atleta è una persona che nel raggiungimento del suo obiettivo si vede fermata per un problema fisico che non si risolve, finisce per sviluppare frustrazione, a volte uno stato depressivo che si ramifica in tutti gli ambiti della quotidianità e soprattutto perdita di autostima e fiducia in se stesso che a volte non permette di tornare ai livelli sportivi antecedenti all’infortunio.

Un ragazzo/una ragazza che sarebbe potuto diventare professionista e campione, spesso, non torna ai livelli voluti e abbandona l’attività. La prevenzione di certi infortuni è importante e come tale va applicata in tutti i momenti della stagione al fine di non trovarsi in situazioni di difficile gestione.

Testo di Emiliano Brannetti

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