Temeva di non avere sufficienti nozioni da dire o da trasmettere ai partecipanti al corso federale di secondo livello durante l’ultima lezione dedicata alla pratica degli ostacoli. Invece, una volta raggiunto il campo di atletica, Andrea Uberti ha incantato per quattro ore (senza pause) i futuri allenatori FIDAL con esercitazioni per migliorare la ritmica e la mobilità scandite da una serie di “da dam da dam” pronunciati ad alta voce.
Una sintesi estrema di quello, che secondo il tecnico della Val Trompia, gli ostacolisti devono imparare a fare per valicare le barriere. E tutto ciò nonostante non fosse presente a mostrare gli esercizi la sua atleta di punta, Elena Carraro, classe 2001, che esordirà domani a Milano.
Originaria di Brescia, oggi in forza alle Fiamme Gialle, l’anno scorso ha siglato il record italiano under 23 nei 100 ostacoli con 12”89, diventando la prima azzurra della categoria promesse sotto i 13 secondi.
Andrea, partiamo da Elena: cosa ti aspetti da lei per questa stagione?
“Mi auguro che si confermi e che faccia quei piccoli miglioramenti che ogni atleta deve fare in gara. Non è più la piccola che gareggia con le grandi, ma inizia a essere lei quella grande. Non sarà facile, su chi si deve riconfermare c’è sempre più pressione rispetto a chi insegue chi è in cima alla classifica, ma finora ci siamo allenati alle migliori condizioni”.
Perché Elena è entrata in un gruppo militare?
“Sì, ma non solo. Quest’anno ci siamo allenati entrambi da professionisti. Prima eravamo dilettanti che recuperavano il sabato e la domenica perché Elena, studiando a Venezia, faceva una vita da pendolare. Non abbiamo mai affrontato situazioni particolarmente difficili, ma qualche disagio in più c’era. Quest’anno poi siamo andati ad allenarci al caldo, a Tenerife e Valencia”.
Come mai avete deciso di rinunciare ai mondiali indoor di Glasgow?
“Perché i 60 ostacoli non sono la sua gara, non stava ottenendo i risultati per cui stavamo lavorando, quindi abbiamo pensato di anticipare di qualche settimana la programmazione della stagione all’aperto, che sarà molto lunga. I mondiali avrebbero creato un ritardo, aggiunto stress e fatica e, anche se avevamo come obiettivo di migliorare le prestazioni indoor, non aveva senso presentarsi a un mondiale e fare 8”30”.
Elena si è da poco laureata in design allo Iuav di Venezia, tra l’altro presentando in tesi il progetto di una piattaforma digitale per permettere ad atleti e fan di seguire le gare di atletica internazionali. Eri emozionato prima della sua discussione?
“Non ho dormito la notte, cosa che non succede quando gareggia (ride, ndr). Ma l’ho vista crescere. Abbiamo iniziato da allenatore di provincia e atleta dei corsi, è come se avessimo fatto dai pulcini alla serie A. È cresciuta lei ma sono cresciuto anche io come coach, è un percorso che abbiamo fatto insieme”.
Ti aspettavi che sarebbe arrivata ai risultati dell’anno scorso?
“No, non mi aspettavo questi risultati, però nelle cose che fa ha un atteggiamento che porta all’eccellenza, al di là del talento che c’è ed è un po’ più difficile da vedere rispetto ad altri talenti più manifesti. Ha delle doti più raffinate da cogliere”.
Tipo?
“Tipo la scorrevolezza, ma soprattutto la capacità di frequenza che è ciò che le ha permesso di ottenere i risultati che ha ottenuto. La cilindrata non è tanto alta, ma ha una centralina potente”.
Cosa pensi della nazionale di oggi di cui fa parte anche Elena?
“È un’ottima squadra e mi sono chiesto spesso che cosa abbia portato ai successi recenti. Sicuramente Marcell Jacobs e Gianmarco Tamberi sono stati quello che Andrew Howe non era riuscito ad essere per la generazione precedente. Non solo gli atleti sono forti, talentuosi, ma sono anche tutti bravi”.
Perché è così secondo te?
“In primis, il direttore tecnico, Antonio La Torre, è del mestiere. È preparato come e più dei tecnici, e anche se può sembrare banale, è un fattore fondamentale. E i tecnici – Licciardello, Frinolli, Camossi, solo per citarne alcuni – sono molto in gamba. Anche il fatto che esista una certa decentralizzazione lungo la penisola a livello di scuole di atletica rende l’ambiente più fertile. Pensa ai velocisti: Tortu, Jacobs, Dosso, Ali, Ceccarelli, si allenano tutti con persone e in posti diversi. Fino a dieci anni fa gli allenatori erano tutti preparatissimi, ma secondo me c’era più isolamento”.
Alcuni commentatori ritengono che gli ostacoli femminili, altri 84 centimetri, siano troppo bassi rispetto a quelli maschili della gara assoluta, altri 1,06 metri e quindi meno “tecnici”. Tu cosa ne pensi?
“Gli ostacoli delle donne sono più pesanti e le ragazze sono leggere (e molto veloci), quindi una collisione con l’ostacolo è più deleteria. In qualunque competizione internazionale, per arrivare a medaglia, bisogna superare 30 ostacoli tra qualificazioni, semifinali e finali. Prenderne anche uno solo può rivelarsi un errore imperdonabile, ma è anche il bello della gara, perché la favorita potrebbe perdere a sorpresa per un valicamento impreciso. Il punto è che ai maschi non succede la stessa cosa, un ostacolista uomo può anche colpire tutti gli ostacoli e comunque arrivare primo”.
In che senso?
“Rispetto alle gare di velocità pura, nei 100 ostacoli si rallenta in media del 13%, contro il 21% della gara maschile. E le velocità medie più alte si riscontrano nei 400, non nei 110, dove gli ostacoli sono stretti. Una volta gli ostacolisti si riconoscevano perché erano gli atleti più alti, ora, invece, non c’è differenza con gli specialisti di altre discipline”.
Quindi non alzeresti gli ostacoli femminili.
“A volte ci dimentichiamo che tutte le specialità sono frutto di scelte arbitrarie prese in un determinato periodo storico. La gara degli ostacoli maschile nasce nel 1896 scegliendo come riferimento per le barriere l’altezza dei recinti per le pecore e utilizzando il sistema metrico anglosassone, perché era un’attività a cui si dedicavano i lord britannici. La gara degli ostacoli corti femminile, invece, nasce nel 1972 e quella dei 400 ostacoli nel 1984. Sono quindi più aggiornate, ed è maschilista pensare che la gara originale sia quella maschile. Anzi, gli uomini partono ancora facendo sette passi prima del primo ostacolo, una cosa che ti costringe a essere scomodo sui blocchi di partenza. In sintesi, alzare gli ostacoli e costringere le ragazze ad andare più piano rispetto ai 400 ostacoli per me non ha senso”.0.
E allora cosa proponi per rendere le gare più eque?
“Si potrebbero allontanare gli ostacoli maschili, ma per farlo servirebbe un rettilineo più lungo. Ma questa – ci tengo a sottolinearlo – è solo una provocazione. Nessuna delle due gare è da cambiare per me, sono entrambe belle competizioni, ma sono due gare diverse”.
Magari lo si può proporre alla World Athletics, che invece di recente ha annunciato di voler sperimentare il salto in lungo con la battuta libera, una modalità di stacco che garantirebbe misure più elevate e quindi una maggiore spettacolarizzazione della disciplina.
“Anche inserendo più palloni in una partita di calcio si farebbero più gol…”
Come sei diventato un allenatore di ostacoli?
“In realtà avevo fatto un corso di prove multiple perché in un campo di provincia un po’ isolato presidiavo tutte le discipline. Nell’eptathlon sono una specialità che dà un sacco di punti, quindi mi ero concentrato su quello. Poi alcune ragazzine che seguivo facevano ostacoli e il resto è venuto da sé”.
Torneresti ad allenare altre discipline?
“Mi definisco un tipo pratico, ho bisogno di vedere un’applicazione della velocità nelle specialità tecniche”.
Spiegaci meglio.
“La velocità sta alle altre specialità come la matematica sta alla fisica. Se si corre veloce si può evitare di imparare a valicare gli ostacoli o a saltare, ma è difficile fare ostacoli o salto in lungo se non si è veloci. Guarda caso, i migliori velocisti italiani sono Jacobs, Simonelli, Sibilio, la Folorunso, Ali, che vengono da specialità tecniche. Scherzando, spesso dico che i velocisti sono lunghisti analfabeti. Anche se alla fine, bisogna ammetterlo, la velocità è la specialità regina dell’atletica”.
Ti definisci un allenatore di provincia, ma in realtà ti sei formato molto all’estero, in particolare in Australia e a Cuba.
“È vero, mi definisco un allenatore di provincia, ma, facendo parte di una generazione che ha vissuto il passaggio dall’analogico al digitale, mi sento di dire che oggi, nel 2024, la provincia esiste solo nella testa di alcune persone. In Australia ci sono andato dopo aver lavorato per una società in cui mi annoiavo. Mi avevano dato un premio aziendale che ho speso per fare un corso di inglese che sarebbe dovuto durare tre mesi, poi diventati otto. In quel periodo alcuni cadetti si erano fatti male facendo salto con l’asta. In Australia sono riuscito a convertire il titolo di allenatore italiano per sottoscrivere un’assicurazione in caso di infortuni nettamente migliore rispetto a quelle che si possono stipulare in Italia”.
In Australia però hai seguito anche dei corsi.
“Due corsi di quarto livello, spalmati su 11 giorni di lezione. Avevo calcolato che, in termini di tempo e denaro, andare in Australia mi sarebbe costato meno che frequentare il corso per allenatori specialisti organizzato dalla FIDAL a Formia e a Roma durante i fine settimana”.
E a Cuba, invece, come ci sei finito?
“Avevo seguito una lezione di Carlo Buzzichelli all’università di Brescia, in cui aveva parlato della possibilità di fare un’intership con gli atleti cubani in vista delle Olimpiadi di Rio del 2016. Quell’anno avevo per la prima volta quattro atleti ai campionati italiani assoluti. Li ho bidonati, ma poi quando sono tornato li ho allenati meglio di quanto avrei fatto senza quell’esperienza”.
C’è qualcosa in particolare che hai imparato all’estero e che vorresti venisse trasmesso anche qui in Italia?
“Viaggiando mi sono accorto che molte metodiche di allenamento sono influenzate dal percorso dell’allenatore e non sempre hanno una ragione tecnica. Ho capito che l’atletica è un linguaggio, e questo è molto bello. Ma la cosa fondamentale che ho imparato – anche se si dice più nelle palestre che in campo – è che se sei il più forte nella stanza vuol dire che sei nella stanza sbagliata. Bisogna sempre andare alla ricerca di qualcosa che stimoli la crescita e non accontentarsi di essere considerati i migliori all’interno di un piccolo ambiente”.
Molti quando ti incontrano nei campi di atletica ti conoscono come “Andrea del Coach”, un blog e una piattaforma di e-learning e, forse, anche il tuo principale lavoro. Com’è nato il tutto?
“Sì, è ilCoach a garantirmi uno stipendio. È nato insieme ad Andrea Dell’Angelo, attuale presidente, perché volevamo organizzare un raduno estivo. Poi si è evoluto in un blog che ospitava articoli tecnici, perché c’era da parte nostra un interesse ad approfondire determinate materie. Poi abbiamo cominciato a organizzare corsi in presenza, sempre seguendo le nostre esigenze di apprendimento. Successivamente è diventata un’academy, che ha accolto nuovi atleti e continuato ad organizzare lezioni, ma in maniera più sistematica. Infine oggi è un sito di e-learning ma anche tutte le altre cose insieme”.
Da giovane hai studiato giurisprudenza e ora a 45 anni sei iscritto a scienze motorie. Sapevi che avresti fatto l’allenatore?
“L’ho fatto con entusiasmo ma vent’anni fa non avrei mai immaginato che sarei arrivato fin qui. Ogni tanto quando sono al campo mi chiedo che cavolo di lavoro faccio”.
Hai tentato anche la carriera di scrittore, pubblicando un libro che si intitola “Latletamascherato” e che parla di sport, ma racconta anche l’inizio di una storia d’amore tra Pietro e Sara, nomi ispirati a due grandi campioni…
“Mi definirei ‘scrivente’, più che scrittore (ride, ndr). Nel 2013 lavoravo in uno studio legale e mi sentivo ingabbiato dalla vita d’ufficio. Ho sentito il bisogno di scrivere quando il campo di atletica Calvesi (tra l’altro, un ex ostacolista) ha chiuso per contaminazione del suolo da policlorobifenili rilasciati da uno stabilimento chimico che per decenni ha inquinato l’ambiente e fatta ammalare centinaia di persone. Mi giravano le scatole per la faccenda, e volevo far sapere che le piste di atletica servono a tante cose, anche a far nascere qualche storia d’amore”.
Tra le persone o tra le persone e l’atletica?
“Sicuramente entrambe”.
foto di Elena Carraro di Fidal (Colombo / Grana)