L’edema osseo è uno degli infortuni più delicati da trattare e più lunghi da smaltire per gli atleti. Scopriamo nel dettaglio da cosa viene innescato, come si guarisce, quali sono le categorie più a rischio e come si ritorna a una sana vita agonistica. Lo facciamo insieme ai ragazzi di Osteopathy Track&Field: Giacomo Consorti, Mattia Cella e Roksana Fard, protagonisti del primo di una serie di approfondimenti legati all’atletica e al running.

In fondo all’articolo, un interessantissimo paragrafo è dedicato alla correlazione tra ciclo mestruale ed edema osseo, una richiesta specifica che abbiamo inoltrato a OTF dopo aver intervistato nelle scorse settimane la mezzofondista umbra Melissa Fracassini.
Edema osseo: come si forma
Prima di iniziare, occorre fare una doverosa premessa: le Bone Stress Injuries (BSI) sono condizioni multifattoriali e complesse. L’adesione ai principi di prevenzione e recupero, per quanto basata su evidenze solide, non garantisce in modo assoluto la prevenzione dell’infortunio o una ripresa lineare. Ogni atleta risponde in modo diverso agli stimoli e il processo di guarigione può essere influenzato da variabili individuali, biologiche e contestuali che vanno oltre le strategie ottimali di gestione del carico, nutrizione e condizionamento osseo.
Le BSI rappresentano un continuum di condizioni patologiche causate da un sovraccarico meccanico ripetuto sul tessuto osseo, senza un adeguato tempo di recupero.
Questo spettro di condizioni inizia con forme più lievi, come la periostite, caratterizzata da un’infiammazione superficiale del periostio, e progredisce fino a condizioni più severe, tra cui gli edemi ossei, segnale di una risposta del midollo osseo allo stress prolungato.

Se il carico non viene modulato, il processo può evolvere ulteriormente fino a una frattura da stress, in cui si osserva una vera e propria discontinuità nella struttura ossea.
Gli edemi ossei, quindi, rappresentano una fase intermedia di questo continuum, evidenziando un sovraccarico persistente che non ha ancora determinato una frattura, ma indica una sofferenza ossea. Prima di rispondere, tuttavia, va fatta una precisazione per evitare di fare terrorismo psicologico. L’osso è un tessuto dinamico, soggetto a continui processi di rimaneggiamento, il che significa che non tutti gli edemi ossei rilevati agli esami strumentali sono necessariamente indicativi di una condizione patologica.
In alcuni casi, infatti, possono rappresentare semplicemente il riflesso di un normale turnover osseo senza avere una reale rilevanza clinica. Per questo motivo, l’interpretazione di tali reperti deve essere contestualizzata all’interno del quadro complessivo dell’atleta, e la loro significatività clinica è una questione che il team sanitario deve valutare attentamente, considerando fattori come la sintomatologia, il carico di allenamento e la storia dell’atleta.
I tempi di guarigione da cosa dipendono?
La guarigione da un edema osseo avviene attraverso un processo naturale di riassorbimento del liquido presente all’interno dell’osso, che richiede un periodo di riposo e una gestione attenta del carico sulla porzione colpita. I tempi di guarigione variano notevolmente a seconda di diversi fattori, tra cui la localizzazione dell’edema, la sua estensione e la risposta individuale dell’atleta al trattamento.
In generale, gli edemi ossei di lieve entità possono risolversi in circa 4-6 settimane, mentre quelli più gravi possono richiedere fino a 6-12 mesi o più. La quantità di liquido presente nell’osso può influire sui tempi di recupero, poiché un aumento della pressione intraossea compromette la microcircolazione, riducendo l’apporto di nutrienti e l’eliminazione dei cataboliti.

Studi in risonanza magnetica e modelli sperimentali hanno evidenziato che un’elevata pressione all’interno del midollo osseo può alterare il gradiente di diffusione dei metaboliti, rallentando i processi di riparazione ossea.
Tuttavia è la posizione dell’edema a giocare un ruolo cruciale. Gli edemi situati in zone sottoposte a carichi elevati richiedono molto più tempo per guarire rispetto a quelli presenti in aree meno sollecitate. Le BSI possono manifestarsi in siti ossei con predominanza trabecolare o corticale, con differenze significative in termini di cause e tempi di guarigione.
Le aree ricche di osso trabecolare, come il bacino, il sacro, il collo femorale e il calcagno, sono più suscettibili a fratture da stress nei soggetti con bassa densità minerale ossea, deficit alimentari o disfunzioni ormonali, e richiedono tempi di guarigione più lunghi rispetto ai siti corticali.
Le zone più a rischio
Gli atleti sono particolarmente soggetti a edemi ossei negli arti inferiori a causa delle sollecitazioni ripetitive e degli impatti continui tipici delle discipline praticate. Le zone più coinvolte includono il ginocchio, la caviglia, il piede e l’anca.
In particolare, il ginocchio è frequentemente colpito a livello del condilo femorale e del piatto tibiale, dove le forze di torsione e compressione possono provocare microtraumi ripetuti, favorendo la formazione di edemi ossei. La caviglia, in particolare l’astragalo e il calcagno, è soggetta a edema osseo a causa dell’impatto durante l’atterraggio nei salti e nei cambi di direzione rapidi.

Anche il piede è una zona critica, con il navicolare e i metatarsi frequentemente colpiti nei fondisti e nei mezzofondisti a causa dell’impatto ripetitivo durante la corsa su lunghe distanze. L’anca, specialmente la testa e il collo del femore, è a rischio nei corridori di fondo e mezzofondo e nei velocisti.
In generale alcune zone vengono considerate ad alto rischio ed altre a basso rischio. Il livello di rischio è determinato dalla possibilità di evoluzione a frattura e dalla possibilità che la frattura comporti una necrosi avascolare dell’osso.
C’è una categoria di atleti più colpita?
I mezzofondisti e i fondisti sviluppano più facilmente edemi ossei rispetto agli sprinter. Questo è dovuto al carico ripetitivo e prolungato sugli arti inferiori, che causa microtraumi continui e stress osseo. L’osso si rinforza principalmente attraverso brevi attività ad alto impatto, mentre la corsa, in particolare nelle discipline di fondo e mezzofondo, rappresenta uno stimolo poco efficace per il rimaneggiamento osseo.
Questo perché, dopo circa 20 cicli di carico con lo stesso tipo di sollecitazione, l’osso perde il 95% della sua sensibilità di meccano-trasduzione, smettendo di rispondere a quello stimolo come promotore di processi di condizionamento. Di conseguenza, il carico continua ad essere applicato senza generare ulteriori adattamenti strutturali.
Le discipline di fondo e mezzofondo, caratterizzate da stimoli ripetitivi a basso impatto, risultano quindi meno efficaci nel favorire il rinforzo osseo rispetto ad attività con carichi più intensi e variabili.
Gli sprinter sono generalmente meno soggetti (ma chiaramente, purtroppo, non immuni) a questo tipo di condizione, poiché i loro sforzi sono di breve durata e alta intensità. I saltatori (lungo, triplo e alto) rappresentano una categoria ad alto rischio a causa dell’elevata forza d’impatto durante l’atterraggio, che sovraccarica le ossa del piede, caviglia e ginocchio.
Quando si può ricominciare a correre?
Il tempo di riposo varia in base alla gravità dell’infortunio, alla localizzazione dell’edema e alla risposta individuale al trattamento. In generale, gli edemi nelle zone a basso rischio richiedono un periodo di ripresa di almeno 4-6 settimane, durante le quali è fondamentale evitare o ridurre attività che comportino carico sull’osso interessato, ma non astenersi da attività di altra natura. Per gli edemi in zone ad alto rischio, i tempi di recupero possono estendersi fino a 3-6 mesi.
Il ritorno alla corsa dovrebbe essere graduale e attentamente monitorato per evitare ricadute e garantire un recupero sicuro. Si raccomanda di iniziare con esercizi a basso impatto come camminata su superfici morbide o deep water running (corsa in acqua) e di progredire lentamente verso la corsa leggera, aumentando gradualmente l’intensità e la durata delle sessioni in base alla risposta del corpo.

Un programma di recupero ben pianificato, che includa esercizi di rinforzo muscolare è essenziale per garantire una ripresa completa. In particolare, ridurre la velocità di corsa può contribuire a minimizzare il rischio di nuove BSI, poiché velocità più elevate aumentano il carico osseo in misura maggiore rispetto al volume totale di allenamento.
Per questo motivo, in fase di recupero, è consigliabile gestire in maniera molto oculata l’intensità, introducendo gradualmente le variazioni di velocità sotto la supervisione del team sanitario in accordo con la/il coach.
E se continuo ad allenarmi?
Difficile individuare una fase che sia effettivamente più critica delle altre ma è importante considerare che sottostimando questa condizione e gestendo male il carico si rischia di aggravare ulteriormente la situazione ossea e aumentare i tempi di recupero.
Inoltre, allenarsi su un edema osseo non guarito può aumentare il rischio di progressione dell’edema verso una frattura da stress con possibili esiti di necrosi avascolare nelle zone ad alto rischio, con danni che possono diventare permanenti.
Gli esercizi e i lavori specifici alla ripresa
La fase di recupero di un edema osseo inizia generalmente quando il dolore diminuisce in modo significativo e l’applicazione di carico durante la deambulazione non è dolorosa. In questa fase, l’obiettivo principale è ripristinare gradualmente la funzionalità dell’arto colpito senza sovraccaricare l’area interessata. In seguito, si introducono esercizi a basso impatto come la camminata su superfici morbide, il deep water running (corsa in acqua) e la bicicletta stazionaria a bassa resistenza.
L’adattamento osseo all’esercizio segue principi specifici che ne determinano l’efficacia nel rafforzamento e nella prevenzione delle BSI. Il primo aspetto fondamentale è la specificità, poiché l’osso si adatta solo se direttamente sottoposto al carico meccanico.
Questo significa che non esiste un effetto sistemico, ma l’adattamento avviene esclusivamente nelle aree esposte allo stress generato dalla contrazione muscolare o dal peso corporeo. Un altro principio chiave è il sovraccarico progressivo: affinché l’osso si “rafforzi”, il carico applicato deve essere superiore a quello della vita quotidiana.

Con lo stimolo meccanico, la resistenza ossea aumenta progressivamente, ma per continuare a promuovere il rimodellamento e ridurre il rischio di micro danni, è necessario incrementare gradualmente sia il carico che la velocità di applicazione dello stimolo.
Infine, la risposta ossea agli stimoli segue il principio della dose-risposta. L’osso perde rapidamente sensibilità ai segnali meccanici ripetitivi e raggiunge un plateau dopo circa 20 cicli dello stesso tipo di stimolo, rendendo inefficaci gli stimoli successivi. Tuttavia, dopo un intervallo di 4-8 ore, la sensibilità si ripristina, permettendo una nuova risposta efficace al carico.
Per massimizzare il condizionamento osseo, è quindi più vantaggioso distribuire gli esercizi ad alto carico e alta velocità in sessioni brevi ripetute nel corso della giornata, piuttosto che concentrarli in un’unica seduta prolungata.
L’importanza dei cambi di direzione
Diversi lavori in pista o in palestra possono essere funzionali a dare stimoli multidirezionali, ma in generale andature, sprint con cambi di direzione, lavori con la agility ladder sono i più utilizzati. L’efficacia di questi stimoli anche a titolo preventivo è provata dal fatto che negli sport che prevedono molti cambi di direzione (rugby, football etc.) l’incidenza delle BSI è molto più bassa che negli sport che prevedono la corsa lineare tipo l’atletica.

Alcuni studi suggeriscono che il trattamento osteopatico potrebbe avere un valore preventivo nella riduzione dell’incidenza di fratture da stress negli atleti. Questi risultati suggeriscono che normalizzazione delle disfunzioni somatiche attraverso il trattamento osteopatico potrebbe contribuire a ottimizzare la biomeccanica e ridurre il carico osseo eccessivo, rappresentando un’opzione complementare nelle strategie di prevenzione e nel gestire il processo di ripresa nelle BSI.
Il caso di Melissa Fracassini: correlazione tra ciclo ed edema osseo
L’amenorrea (assenza di mestruazioni) nelle atlete può essere correlata a uno squilibrio ormonale causato da un eccessivo carico di allenamento, da una ridotta disponibilità energetica (come avviene nei Relative Energy Deficiency in Sport – REDS) o da uno stress psicologico elevato.
Questo squilibrio comporta una diminuzione dei livelli di estrogeni, ormoni essenziali per la salute ossea, poiché contribuiscono al mantenimento dell’equilibrio tra il riassorbimento e la formazione dell’osso. La riduzione degli estrogeni aumenta il riassorbimento osseo, rendendo le ossa più deboli e predisponendole a BSI, tra cui gli edemi ossei.
Gli estrogeni svolgono un ruolo fondamentale nella regolazione del metabolismo osseo, promuovendo l’attività degli osteoblasti (cellule che costruiscono l’osso) e inibendo quella degli osteoclasti (cellule che riassorbono l’osso).

La loro carenza porta a un riassorbimento osseo accelerato e a una riduzione della densità ossea, aumentando la suscettibilità alle lesioni da stress e agli edemi ossei. Oltre agli estrogeni, altri parametri ematochimici influenzano la salute ossea, tra cui la vitamina D, essenziale per l’assorbimento del calcio e la mineralizzazione dell’osso, e il paratormone, che regola il metabolismo del calcio e il turnover osseo.
Anche livelli insufficienti di calcio e ferritina possono compromettere la resistenza ossea, aumentando il rischio di BSI. Un monitoraggio accurato di questi valori, associato a un approccio multidisciplinare che comprenda l’adeguamento del carico di allenamento e una corretta alimentazione, è fondamentale per prevenire alterazioni della densità ossea negli atleti.
La densità minerale ossea ottimale per gli atleti differisce da quella della popolazione generale, poiché le esigenze dello sport richiedono valori superiori del 5-15% rispetto ai non atleti.
segui Osteopathy Track&Field sul sito web e sul profilo Instagram