Gaia Sabbatini è solo l’ultima dei tanti atleti costretti a fare i conti con il morbo di Haglund. La mezzofondista delle Fiamme Azzurre si è operata pochi giorni fa con l’obiettivo di tornare quanto prima a correre e di non compromettere il tendine della gamba sinistra.
Allo stesso intervento si è sottoposta un mese fa anche l’ottocentista delle Fiamme Gialle Martina Tozzi. Luminosa Bogliolo durante la passata stagione, Marta Zenoni, Matteo Galvan, Silvano Chesani e José Bencosme sono gli altri azzurri incappati in questo fastidioso infortunio che può raggiungere vari livelli di gravità dai quali discendono differenti tipi di trattamento e recupero.
Abbiamo voluto fare chiarezza sulle caratteristiche del morbo di Haglund con Emiliano Brannetti, valido osteopata che collabora da anni con la federazione italiana.
Emiliano, abbiamo parlato ieri con Andrea Ceccarelli, il tecnico di Gaia Sabbatini, e ci ha detto che la ragazza potrebbe tornare già a correre nel giro di un mese.
“Quando si parla di morbo di Haglund è importante conoscere la quantità di accumulo di calcio nell’osso. Se la borsa calcaneare non è andata a intaccare il tendine d’Achille, allora l’intervento è più semplice. Dura qualche decina di minuti e può equipararsi, anche nei tempi di recupero, a quello di una frattura, con una degenza che va dai 20 ai 30 giorni in relazione a quanto il chirurgo venga impegnato nella resezione ossea”.
Capita però che invece il tendine risulti compromesso.
“Quando la parte posturo superiore del calcagno si ispessisce in modo significativo, allora questo spingerà sulla zona di tendine che si stacca dall’osso e le protuberanze di calcio finiranno, nel lungo periodo, per lesionarlo nella parte anteriore. A quel punto occorrerà rimuovere quanto prima questo supplemento”.
Cosa si fa quando viene diagnosticato il morbo di Haglund?
“Ci sono vari approcci e di solito, nella prima fase, a dominare sono le terapie conservative. Il trattamento farmacologico prevede l’assunzione di antinfiammatori sistemici e infiltrazioni locali. La parte si tratta anche con delle sedute di osteopatia e con della terapia fisica a base di laser, ultrasuoni, tecar e Limfa, macchinario che non tutti ancora possiedono. Il monitoraggio però diventa fondamentale, perché bisogna poi intervenire chirurgicamente prima che si lacerino i tendini. Ci sono stati casi in cui diversi atleti non riuscivano più a mettere i piedi per terra”.
Nell’ipotesi peggiore lo stop per l’atleta sarebbe molto più lungo.
“Entrerebbero in gioco i tempi di recupero che servono per le rotture dei tendini vere e proprie. Dai sei agli otto mesi per tornare a correre, ma un agonista, per rientrare alle gare, non impiegherebbe meno di un anno”.
Quali sono le cause di questa formazione extra di calcio che tanto fa soffrire gli atleti?
“C’è indubbiamente una predisposizione genetica. Il calcagno viene molto sollecitato durante l’attività e a quel punto entra in gioco anche la composizione anatomica degli atleti, la postura e gli squilibri. E’ inevitabile che non ci sia mai una perfetta distribuzione dei carichi su entrambe le gambe. E in pieno carico, il calcio si accumula per la trazione esercitata dai tendini sul calcagno”.
Dopo l’intervento, di norma, si comincia dai lavori alternativi.
“La prima parte dell’attività si fa in acqua, dove in assenza di gravità si può lavorare tranquillamente con i carichi. Poi si passa agli elastici e quindi in palestra. Non sottovaluterei l’uso della bici: chi pedala recupera prima anche la parte atletica. Nel caso di Gaia Sabbatini rientrerà in campo proprio come quando ci si riprende da una classica frattura”.
Quanto è alto il rischio di recidive?
“Quasi nullo per un atleta. La borsa calcaneare può rigenerarsi in circa dieci anni di attività e non farebbe in tempo, nella maggior parte dei casi, a intaccare la carriera di un atleta che finisce sulla soglia dei trent’anni o poco più. Personalmente non ho mai visto ricomparse né casi di recidiva sono oggetto della letteratura in materia”.
Si può fare qualcosa per prevenire Haglund?
“Direi di no. Lo stretching non svolge alcun ruolo, né esistono allenamenti specifici per aggirare l’ostacolo. Anche se il tuo calcagno è predisposto per accumulare calcio, non puoi accorgertene o evitare che ciò accada, alla stregua di tanti altri infortuni che non possono di certo impedirti di svolgere l’attività prima che essi si manifestino”.
foto archivio Fidal